all'interno della visione.

Il Quotidiano della Calabria - Domenica 9 giugno 2013

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TUTTO IL BIANCO DI TELARICO.

Corriere della Calabria - Giovedì 12 dicembre 2013

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Giulio Telarico.

Vita e indagine operativa.

di Maria Brunetti

L’opera di Giulio Telarico si è sempre delineata nel senso di una profonda riflessione sulla pratica comunicativa, tesa a suscitare ripensamenti, a suggerire punti di vista alternativi rispetto al senso comune della percezione della realtà. L’elaborazione del dato visivo, a prima vista insignificante, successivamente interiorizzato e presentato in nuove e personali vesti interpretative, ha costituito il fulcro di un’intera attività artistica. È così che trascurabili dettagli quotidiani, all’apparenza del tutto marginali, assumono inattese connotazioni. L’ultima produzione propone un’identica e suggestiva concezione del dato reale, presentando metaforici messaggi soggettivamente dilatabili fino all’assoluto, tramite forme e segni offerti all’osservatore in maniera casuale e apparentemente irrilevante. Solo decodificando questa scrittura simbolica, solo pagando questo tributo lo spettatore potrà accedere ad uno spazio tutto immaginario, ad una surrealtà protesa verso la dimensione dell’inconscio e dell’irrazionale. Per quanto i grafemi utilizzati richiamino segnali sia convenzionali sia ignoti, esortano a ricercare la chiave di lettura all’interno del singolo, in un universo comune ed allo stesso tempo fortemente individualizzato. Telarico utilizza i simboli secondo un codice comune ma singolare, insolito ed insieme noto, tale da attrarre e conquistare chiunque si soffermi ad osservarli. Non è solo l’area surreale ad essere sottesa, ma una vera e propria dimensione spazio-cromatica, data dalle forme sporgenti sulla superficie delle tele che realizzano un elegante bassorilievo pittorico. L’ampiezza dimensionale e monocromatica enfatizza l’estensione dello spazio onirico, così come il rilievo cattura lo sguardo e consente di entrare nell’universo antico e fantastico, remoto e illusorio dell’esperienza personale e al contempo universale. La tecnica utilizzata comprende un misto di pittura e scultura legate dal colore brillante che seduce e proietta lo spettatore direttamente all’interno di questo mondo parallelo, fino ad inglobarlo completamente, ingoiandolo in un’area spazio-temporale alternativa, proprio come accade all’interno delle “stanze”, in cui il bianco ed il nero giocano un ruolo predominante.

A tale espressione artistica, Telarico giunge attraverso una lunga e meticolosa ricerca sugli effetti del colore, in particolare sulla forza, sulla potenza coinvolgente e trascinante, in grado di avvincere e portare alla luce l’immaginario. La forma, quasi del tutto scomparsa nella produzione iniziale del Duemila, solo accennata dall’ombra discreta degli incavi e degli sbalzi, ritorna adesso con un ruolo niente affatto secondario.

Immediatamente prima di giungere a questi risultati, rispetto allo spazio ed al colore, la forma faceva solo da comparsa, suggerita, accennata dal chiaroscuro leggero del rilievo. La predominanza del bianco reinterpretava lo spazio e la fruizione dello stesso, interiorizzandolo ed espandendolo. Siffatta espressione ha prevalentemente caratterizzato la recente partecipazione a mostre collettive di portata nazionale e internazionale, che hanno avuto il loro culmine con l’esposizione a Reggio Calabria, nel Padiglione Italia della 54a Biennale di Venezia.

Accanto alle opere astratto chiaroscurali, troviamo, sul finire degli anni Novanta ed agli inizi del Duemila, la ripresa di tematiche pop, già viste nella precedente produzione, in special modo in quella degli anni Settanta ed Ottanta. In particolare, sullo sfondo acceso delle tele, si stagliano vivaci e riconoscibilissimi contorni, proposti come riporti fotografici, di grande effetto visivo, come nella serie dei ritratti in omaggio a Marilyn.

Agli inizi della carriera, nel corso degli anni Settanta, Telarico lavora prevalentemente sul segno, portando avanti una pittura che, partendo da rappresentazioni iperrealiste, approda, nel decennio successivo, a risultati di matrice astratto-simbolica. L’attenzione ai segnali della comunicazione trova manifestazione nella riproduzione di scritte e graffiti murali, incentrandosi in seguito su decorazioni e stucchi secondo una macrolettura di particolari architettonici generalmente urbani. È a questo punto che fanno la loro comparsa le installazioni povere, portando alla ribalta l’oggetto, che entrerà nelle tele attraverso la sperimentazione materica. Risale agli stessi anni anche la scelta di accostare colori primari e complementari, con il preciso intento di attirare l’attenzione, di conseguire il colpo d’occhio sul simbolo e sul messaggio, insieme all’introduzione di elementi estranei, naturali, ma formalmente significativi.

Per niente trascurabile, nello stesso periodo, la partecipazione a laboratori didattici ed a riappropriazioni ambientali con riqualificazione artistica di spazi urbani. Appartiene a questa produzione l’originale grafia spezzata e sconosciuta, realizzante la concezione del segno nel significato primo di traccia, segnale, simbolo. Il ripensamento sul colore, tematica costante dell’indagine di Telarico, è solo alla fine degli anni Novanta che si manifesta con una progressiva perdita di cromaticità propria dell’astrattismo, adoperando il bianco nel suo carattere indefinito primario. Il bianco assoluto, l’accenno chiaroscurale della forma astratta leggermente rilevata e la dilatazione all’infinito dello spazio si caratterizzano come elementi distintivi della produzione di passaggio nel nuovo millennio. Questa tecnica pittorica, di matrice a metà strada tra il simbolico e l’astratto, basata sulla ripetizione costante di forme lievemente accennate, ha lo specifico intento di suggerire una nuova dimensione, fortissimo stimolo alla partecipazione ed alla trasmissione visiva di contenuti immaginari.

Negli ultimi lavori la forma ritorna progressivamente ad essere più concreta, divenendo alla fine sempre più netta, configurandosi a rilievo, intimamente fusa alla tela tramite il colore a volte brillante, a volte completamente assente. Tutto ciò con il preciso scopo di indurre lo spettatore ad una profonda escavazione nella memoria, alla ricerca di una possibile identificazione o raffronto della simbologia con forme e immagini note, richiami del passato e dell’immaginario collettivo. È questa la forza dell’arte di Telarico: ampliare la propria personale visione fantastica fino a rendere l’altro parte integrante di un processo, in cui lo spazio è sia dimensione propria sia assoluta.

Giulio Telarico, pittura d’ombra

di Andrea Romoli Barberini

 

I Greci dicono, alcuni, che [la pittura]

fu trovata a Sicione, altri a Corinto;

tutti però concordano nel dire che nacque dall’uso di contornare l’ombra umana con una linea.

Per tanto la prima pittura fu così; la seconda fu a colori unici, detta poi monochromatos quando era in uso quella più complicata, a vari colori. La pittura monocromatica dura tal quale anche adesso.

Plinio il Vecchio, Naturalis Historia,

XXXV, 15

 

In termini di prassi esecutiva, di elaborazione tecnica, il lavoro di Telarico che qui si propone, raccoglie e trascende l’eredità nobile e severa di tanta indagine pittorica d’avanguardia degli anni Sessanta. Segnatamente quella che, in polemica con l’informale e la sua visceralità, aveva cercato di neutralizzare, col raggiungimento del cosiddetto Grado zero della pittura, quella componente narrativo – emotiva interpretata come un limitante orpello del passato da rimuovere.

Tale percorso, all’insegna della drastica riduzione e rielaborazione degli elementi che sostanziano l’opera, tracciato circa mezzo secolo addietro, aveva come obiettivo il raggiungimento di una possibilità inedita, per l’arte in generale e per la pittura in specie, ispirata dalla consapevolezza del limite fisico del fare pittorico tradizionalmente inteso. Ciò avveniva in una fase storica in cui la pittura desiderava forzare i propri confini, rinnovare se stessa, quindi recidere il millenario cordone ombelicale che la legava tanto alla pura e semplice bidimensionalità, quanto alla consuetudine narrativa, per indagare, invece, in quelle opzioni, apparentemente più elementari ed essenziali, vincolate fortemente alle centralissime questioni sul linguaggio, finalizzate, tra le altre cose, al raggiungimento di un rapporto nuovo e più diretto con lo spazio.

Traccia significativa e connotante l’adesione a certe istanze della ricerca era stata, in questa importante stagione, la scelta della monocromia. Una scelta, a suo modo, estrema, radicale, che aveva avuto uno dei suoi più convinti sostenitori e teorizzatori nel critico Udo Kultermann, curatore, nel 1960, della mostra Monochrome Malerei, presso il museo d’arte di Leverkusen, nonché redattore, tra gli altri, degli scritti Nuova concezione della pittura e Libera dimensione, comparsi nei due numeri della rivista “Azimuth”.

E nel rigoroso e articolato coacervo delle istanze che alimentarono questo particolare ambito della ricerca visuale, che include, tra i tanti, artisti quali Lucio Fontana, Piero Manzoni, Agostino Bonalumi, Enrico Castellani  è possibile individuare il momento primo, il bagliore originario da cui prende le mosse quel particolare approccio con la pittura che Telarico ha adottato ad un certo punto della propria indagine artistica, per intraprendere un percorso che si dimostrerà personalissimo e, pertanto, altro e distante da quello ispiratore, ma comunque, e talvolta insospettabilmente, ad esso riconducibile per la comune centralità dell’ombra.

Ma se nelle opere di quei maestri, le vibrazioni delle superfici monocrome erano dettate dagli aggetti, con l’obbligo di escludere ogni possibile tentazione figurale e con ripercussioni significative sugli orientamenti di tanta critica ancora oggi rilevabili, Telarico, al contrario, consumate le prime sperimentazioni inseribili nell’ambito della più pura astrazione segnica, ha riportato il “discorso dell’ombra” nell’umanissima dimensione dell’esperienza, del ricordo, attraverso la referenzialità latente di alcune forme che, di fatto, restituiscono a questi manufatti quel particolare mix di calore e mistero, programmaticamente escluso dalle esperienze dei grandi fondatori.

Lo dimostra, dopo l’iniziale rottura, in nome del segno, con il racconto e, in qualche misura, con l’unità fisica dell’opera (ci si riferisce alle composizioni su supporti sagomati o a quelle composte da più moduli), la successiva ricomposizione, il ricongiungimento e il recupero di forme referenziali con latenze narrative che, tuttavia, senza smentire la ricerca precedente, hanno finito con l’ispirare percorsi ulteriori e imprevisti.

Prendono così vita quadri in cui il segno/ombra perde la sua valenza esclusivamente aniconica per diventare, all’occorrenza, anche sagoma antropomorfa (l’autoritratto dell’artista) che dialoga, entra in relazione con altre forme e presenze segniche, per creare suggestivi enigmi visivi, rebus pressoché indecifrabili, caratterizzati da una nota di affascinante mistero

E l’aver forzato quella sorta di annoso embargo imposto alla figura, non corrisponde, nell’artista cosentino, alla riduzione della soglia del rigore, perché i lacerti figurali che fluttuano in questi particolari cosmi monocromi, ben lungi dal mostrarsi attraverso l’ovvietà illustrativa di immagini oggettive, si palesano attraverso la ripetizione, quasi ciclica e con poche varianti, di un selezionato campionario di forme, sagome misteriose, talvolta appena leggibili e prive di dettagli: segni complessi, non di rado antropomorfi e come scaturiti da un lento e complesso processo di misurata erosione e riduzione di quel suo personalissimo repertorio iconografico che aveva caratterizzato la sua passata esperienza.

Ed è attraverso una tecnica finissima, affidata a elementi ritagliati, applicati sulla tela, quindi rivestiti e dipinti, che il gioco degli aggetti e degli spessori crea la rilevanza plastica, vera e tangibile, di questo codice enigmatico che, in tal modo, quasi miracolosamente, anche in opere assolutamente monocrome, può staccarsi dai piani di fondo grazie alle linee d’ombra che ne definiscono i profili.

Qui Telarico, al fine di vincere il limite fisico della pittura, superandone la spazialità illusoria e simbolica, sceglie la via del compromesso con la tridimensionalità del rilievo. Ed è proprio qui, con questa scelta di campo, che l’artista si inserisce, con la sua personale e per certi versi “eretica” interpretazione del problema della libera dimensione – almeno rispetto alla necessità assolutamente aniconica dei suoi predecessori - nel solco di quanti hanno scommesso sull’oggettualità pura e senza racconto del quadro che, per questa via, rimane e si conferma tale, senza smentire, con le sue parti appena aggettanti sul piano di fondo, la sua tradizionale bidimensionalità.

E’ per questo che, in tali manufatti, il retro, o meglio il dentro dell’opera, risulta essere non meno interessante del lato del quadro che si affaccia sul mondo per proporsi alla fruizione. In questo spazio, intimo e inaccessibile, celato dall’epidermide complessa della tela e del colore, che accoglie e custodisce il segreto della struttura e la regia della composizione e della forma, c’è l’ossatura dell’opera. Scrutare questo spazio, che prelude, guida e sostanzia “l’effetto finale”, è come partecipare a una lezione di anatomia. Tutto è calcolo, misura, funzione: gli spessori degli aggetti (le matrici d’ombra), le distanze, la giustapposizione degli elementi (dei veri e propri segni-simbolo più che segni-significato), e ancora gli inganni, o, per meglio dire, quei particolarissimi e ricercati accidenti plastici che sorprendono l’occhio con l’esaltazione dell’ambigua dialettica del concavo e del convesso.

Partendo da questi saggi, che sembrano celebrare l’elogio dell’ombra, l’artista è intervenuto anche sui formati dei supporti, prima rompendone l’ordinaria ortogonalità e poi giocando con la continuità delle superfici. Sono nate così una serie di opere tracciate da faglie profonde che dividono tele e tavole con una drammatica interruzione della superficie pittorica e delle forme che la percorrono. Quasi degli iati che tagliano la pelle del quadro e i suoi segni, ma che sono segno e colore essi stessi, discontinuità che non compromette l’integrità dell’elaborato e, anzi, ne entra a far parte come elemento connotante, ombra tra le ombre, riferimento estremo nella scala degli scuri.

Espressa nell’ombra, inglobata  in uno spazio di rappresentazione complesso, quale può essere un supporto pittorico, la forma si manifesta sotto il segno di un’assenza/presenza (assenza del dettaglio, del volume, della terza dimensione; presenza della proiezione di figure, cose, segni). E, nell’ombra, si perde, o quanto meno cambia, una buona dose dell’identità “oggettuale” delle cose, delle singole sagome rappresentate. Persone, oggetti, calligrafie diventano tracce, segni non più di impalpabile evidenza, ma di tangibile fisicità, di forma variabile e valenza ambigua, perché l’ombra delinea e delimita porzioni di superficie piana in uno spazio che, nel caso in esame, non è cartesiano, ma corrisponde a una dimensione assolutamente mentale, priva di coordinate certe. Ma se lo spazio è indefinito, necessariamente tale sarà anche il tempo. L’ombra che abita questa dimensione metafisica è, quindi, un residuo dell’esperienza, ormai sostanzialmente irriconoscibile e fluttuante, un qualcosa che ha mutato le sue sembianze originarie per effetto dell’erosione del ricordo.

Queste opere sono, pertanto, delle aperture su un universo altro, in cui il senso di assoluto è come affidato alla luce, che si manifesta nella scelta cromatica, ma anche, talvolta, ad una sua imprevedibile interpretazione, nel segno della riduzione, che passa per l’apparente negazione del colore. Ciò avviene quando le ombre scrivono le loro storie segrete e tracciano i loro segni sulle tele grezze di lino, di un’essenzialità quasi francescana, eppure così nobile. Di qui la scelta, rigorosamente necessaria, del monocromo, che assolutizza ed evidenzia l’idea di vuoto profondissimo di queste particolari porzioni di uno spazio mnemonico, intimo, personalissimo, e perciò discreto che, con il suo mistero, tutto include e avvolge per nulla rivelare compiutamente.

E come il disegno nasce dal bianco, si può affermare che queste forme profilate dall’ombra nascano dal colore, dalla sua vibrazione, dai suoi coaguli. Lo si capisce osservando quella sorta di grammatica del colore fatta di tono, trasparenza, intensità della velatura, orientamento della pennellata da cui sembrano scaturire certi grumi e germinazioni: le forme e i segni che assumeranno tangibile fisicità superato questo stato embrionale, calato nella bidimensionalità della pittura pura. Perché qui il colore non si presenta mai come superficie piatta e asfissiante, al contrario assolve la funzione di generatore di una spazialità indefinita e indefinibile, ma certamente profondissima, in cui i segni nascono e vagano fino a raggiungere il galleggiamento, l’affioramento sull’estremo limite di questo universo, la soglia del quadro.

Da ciò è facile comprendere come il colore, in queste opere, documenti qualcosa di molto più complesso che una semplice traccia dell’istinto pittorico di Telarico.

Artista la cui unicità è tutta racchiusa in una pittura che, quasi negando sé stessa, attraverso il rilievo, ritrova l’ombra e, con essa, le proprie e più remote radici.

 

Ombra, colori, materia

Ambivalenza del linguaggio

di Giulio Telarico

di Fabio De Chirico

 

Ragionare dell’ombra e sull’ombra, significa parlare di arte.

Il mito dell’ombra, generatrice di forme e di criteri compositivi e stilistici, attraversa non solo il mito delle origini ma le prime tracce della storiografia artistica occidentale. Da Plinio il Vecchio a Platone, la storia della creatività e dell’urgenza espressiva connessa alla creazione di immagini, prioritaria istanza eidetica ed antropologica, si lega indissolubilmente alla perdita e all’assenza, e dunque alla necessità di ricreare quanto ancora vive pur non essendo più palpabile e tangibile. Sia esso l’amato perduto o partito, siano gli eidola ineffabili e sfuggenti, parvenze inconsistenti di un destino comune e terreno, le ombre si prestano a suggerire corpi e figure, altrimenti perdute.

Ma è solo la luce che ne consente la possibilità di essere tracce, e dunque l’attuazione visibile. La luce è il tramite della trasformazione dell’ombra in immagine credibile, verosimile.

Certo vi è alla base una fiducia naturalistica nelle potenzialità  visibili, ricreative dell’artista, figura deputata ed eletta, tra le tante, al compito drammatico (per certi versi) di dovere e saper rendere credibile e vero quanto è invece solo parvenza.

Da Giotto in poi l’arte ha lottato per competere nella capacità di rendere illusoriamente ingannevole la visione di quanto era reso ben più reale dalla natura, aprendo il varco al naturalismo e al realismo che più propriamente dichiaravano il loro intento ideologico e poetico verso scelte programmatiche che mimeticamente avevano come principio generativo il presupposto di essere in gara con la natura. Poiesis e mimesis erano dunque complici alleate nel tessere le trame di un inganno visivo che si proiettava sul teatro della storia per dettare le regole di una antropologia della visione, intesa come teatro delle apparenze divenute realtà.

Tutta la storia dell’arte non è altro che il racconto ardimentoso della sfida dell’uomo con la natura nella guerra inesorabile sulle capacità di riuscire a rendere incredibilmente vero ciò che invece è solo frutto di alchemiche mescolanze organiche.

E quando a metà dell’Ottocento la tecnica fotografica ha mosso i suoi primi passi ciò che maggiormente stupiva gli astanti e i cultori, nonostante i lunghi e stucchevoli tempi di posa, era la capacità del mezzo di riuscire a catturare la realtà e a renderla democraticamente a disposizione di tutti. L’ingenua credibilità neopositivista consentiva di esaltare gli straordinari mezzi del nuovo mezzo di riproduzione per finalità impensabili e non chiaramente rintracciabili nell’orizzonte ancora acerbo di una storia della civiltà dell’immagine, che ben altri risvolti avrebbe rivelato nel nuovo secolo, di fronte all’imperante dominio del capitalismo, pronto a piegare ogni strategia comunicativa alle proprie istanze commerciali e a indirizzare ogni sperimentazione tecnologica alle dinamiche  del consenso.

Tutto questo si è verificato fino all’avvento delle moderne tecnologie della seconda età industriale che, modificando i rapporti sociali e le strategie culturali, andava instaurando un nuovo periodo di disincanto e di razionalità, un’era “analitica”, secondo la celebre interpretazione di Filiberto Menna che frantumava e scandagliava le regole della rappresentazione, al fine di dimostrarne il fallimento. Con l’impressionismo e con Cezanne si apre la stagione che segna la fine dell’illusionismo albertiano e rinascimentale e si prepara il terreno alla piena affermazione della modernità, intesa appunto nella sua accezione di consapevole utilizzo del linguaggio artistico in tutte le sue fluttuanti diramazioni. Duchamp e il concettuale iniziano a frantumare e destrutturare ogni forma e stile, con l’ironia e la consapevolezza che saranno poi il filo conduttore anche della post-modernità. Tutte le avanguardie storiche, le neo-avanguardie e le esperienze visive degli ultimi decenni hanno poi inevitabilmente fatto i conti con il mutato sistema dell’arte, con un ruolo degli artisti sempre più schizofrenico e dai contorni ambivalenti, con l’affermazione di logiche di mercato, spesso estranee a valide opzioni estetiche.

Il giocattolo ormai si è rotto e non è più possibile tornare indietro.

Da questo momento in poi anche l’ombra perde la sua aura magnetica e lirica e inizia ad essere linguaggio, consapevole utilizzo di scelte tecniche e programmatiche.

Questa brevemente, e in maniera un po’ ellittica, la storia, il contesto entro il quale poter inserire l’esperienza che circoscrive il lavoro di Giulio Telarico.

Dopo aver partecipato alla sezione di Reggio Calabria, predisposta per la 54° Biennale di Venezia, Telarico, con questa personale realizzata nella Galleria Nazionale della Calabria, delinea attraverso il tracciato espositivo uno spazio di riflessione e di sintesi del suo percorso artistico, che inevitabilmente  si configura come un momento di bilancio tra quanto già realizzato e quanto ancora potrà accadere nella sua vicenda storica e culturale, nell’ambito di un costante confronto tra la tradizione novecentesca e la ricerca di un linguaggio autonomo e personale.

La sua formazione si situa nell’alveo del dibattito svoltosi tra la fine degli anni Cinquanta e il decennio successivo, che vedeva a confronto le istanze espressive e le declinazioni politiche di certe esperienze dell’informale e del realismo, con le sperimentazioni di una generazione che tentava nuovi percorsi linguistici, giungendo ad un astrattismo cromatico e formale per certi versi destabilizzante, e sempre in bilico tra superficie pittorica e invasione plastica della realtà (Castellani, Bonalumi, Fontana, Manzoni). Un dibattito che aveva trovato nelle pagine della rivista «Azimuth» la sua collocazione più consona.

Posta questa premessa, indagate negli anni successivi le possibilità di un approccio ‘pop’ al repertorio di forme e frammenti visivi, Telarico ha costruito un personale scenario di segni e figure che vagano tra il riconoscibile e l’indecifrabile.

Le sue opere, tra gestualità pittorica e ricerca di forme plastiche, emergenti dalle tele, sapientemente modellate e centinate, o costruite per aggregazione materica, si situano nello spazio ambiguo della percezione tra illusorietà e realtà, lanciando una sfida all’osservatore, imbrigliato costantemente nel gioco sottile e filosofico di dover decifrare i segni visivi, ma anche le modalità espressive con cui sono proposti. C’è una continua tensione nei suoi lavori che mira a inglobare l’osservatore, rendendolo protagonista e soggetto pensante, attore e non più spettatore, in un costante confronto con l’artista che lo sfida sul terreno delle sue modalità percettive.  Davanti a queste opere ci si deve rendere conto di essere di fronte a qualcosa, non è concesso in alcun modo delegare ad altri l’esperienza estetica e percettiva. Il Dialogo con l’ombra, oltre a rappresentare un personale modo di ripensare il senso e il ruolo dell’arte e dell’artista, è dunque un dialogo con l’osservatore, con le sue abitudini eidetiche, con la tradizione dell’arte come data una volta e per tutte. Oltre che essere la proiezione tangibile di un conflitto tra opposti (bidimensionale/tridimensionale, colore/non colore, segno/simbolo, superficie/spazio, ombra/luce, arte/vita).

Tutte le componenti linguistiche del fare pittura (segno, gesto, colore, bidimensionalità, plasticità, acromia), unitamente alle componenti materiche (tela, carta, legno, pigmenti), si consolidano in un sistema segnico che, attraverso un personale alfabeto visivo, creano di volta in volta testi iconici che non portano mai all’azzeramento del linguaggio (monocromo, superficie acromatica, supporto), ma formano concrezioni e si raggrumano in inedite strutture percettive, dove la riconoscibilità del segno non diviene mai scontato percorso interpretativo.

È significativo questo ‘dialogo’ che l’artista crea tra il colore e il non colore, inteso non solo come assenza, ma come utilizzo primario delle materie al grado zero dell’elaborazione creativa. È una dialettica, questa, che attraversa e pervade tutta la produzione di Telarico, sempre in dissidio tra accattivante affabulazione pittorica e riduzione al grado zero della materia, intesa essa stessa come linguaggio già consolidato.

Un altro elemento di riflessione di particolare rilevanza – sia in termini di costruzione dell’opera, sia rispetto alla percezione estetica come dialettica tra l’artista e l’osservatore –  è dato dall’impiego del modulo strutturale, quadrato o rettangolare che sia, a comporre trittici o polittici, che rimandano inequivocabilmente alla pittura narrativa, al racconto figurativo di ascendenza medioevale. L’impiego di diversi moduli strutturali che vanno a comporre un unico tessuto visivo, come l’incastro di frammenti diversi, o come un intero periodo che si compone per frasi disgiunte, ma unite da un unico significato, appare per l’artista non un semplice divertissement strutturale, o un’esigenza compositiva (che mira a realizzare una dimensione del racconto altrimenti difficile da raggiungere), ma al contrario un’istanza primaria, linguistica direi, di comporre per sintagmi, di riconfigurare tracciati visivi che nascono già come composizioni armoniche, di ricompattare racconti che per loro stessa natura sono generati dall’accostamento di sezioni visive altrimenti sconnesse. È un modo di procedere che ovviamente guarda all’opera, al racconto ultimo, come all’accostamento di fasi e procedimenti creativi intermedi, ma necessari. Un assemblaggio quasi inevitabile per un artista che considera il supporto alla stregua di ogni altro elemento poetico, e che dunque costruisce per frammenti, fino a comporre o per cercare quell’unità dello sguardo che risulta ormai, non più data in partenza, ma raggiunta nei termini di una ricerca formale e lessicale.

È come se attraverso la ricomposizione, ancora una volta egli riaffermasse il ruolo produttivo e creativo dell’artista, a cui solamente spetta la responsabilità della creazione e a cui si rimanda il senso ultimo del fare arte, e in definitiva la scelta dei codici e degli strumenti attraverso cui esprimere tutto ciò.

Permane in ogni caso quel senso di sfida, lanciata come a richiedere consensi o a produrre interrogativi. Che sono poi quelli essenziali, sul senso del fare arte, sul ruolo dell’artista, sul sistema di rappresentazione e fruizione. In altre parole sul tempo, sugli spazi e sui modi della creazione.

La sfida si fa dichiarata nella Stanza, realizzata appositamente per questa evenienza, che ingloba e avvolge il visitatore, offrendogli l’opportunità di un’esperienza spaziale e fisica, che non è solo un percorso di ampliamento della percezione estetica, ma un’offerta generosa che gli consente di entrare nella sua arte, nella materia e nel linguaggio che la caratterizza, aprendo un varco nell’insondabile mondo espressivo che ne contraddistingue le scelte tecniche e plastiche. Se la percezione può essere ingannevole e fluida, l’esperienza può al contrario dirci che l’artista è lì, con il suo corpo e la sua anima, senza alcun rinvio possibile. Sta a noi cogliere l’occasione, rara e dunque assolutamente preziosa, quella di entrare nello spazio della creazione, consapevoli che  tutto ciò non sarà ripetibile.

Un dato assolutamente interessante, infine, risiede sulle modalità e sulle procedure impiegate. Giulio Telarico, infatti, affida all’opera anche la capacità di veicolare le modalità costruttive e operative attraverso cui realizza i suoi manufatti, che sono di natura esclusivamente artigianale. Egli realizza tutti i suoi lavori in prima persona, procedendo con sapienza costruttiva alla produzione del manufatto, che poi completa utilizzando il colore e altre tecniche espressive. Sembra così voler rivendicare il ruolo totalmente autografo di ogni fase della creazione, dall’ideazione alla realizzazione, contravvenendo a tanta produzione visiva contemporanea, in cui l’artistica attribuisce a se stesso concettualmente solo il ruolo ideativo del progetto, affidato poi in esecuzione ad altri soggetti.

Questo, credo, amplifica e sottolinea quell’aspetto di appropriazione e responsabilità creativa, che restituiscono al suo lavoro la dimensione di una poiesis che pur ascrivibile, cronologicamente, culturalmente e concettualmente, ad un ambito totalmente contemporaneo, denotano una facies artistica che affonda le radici nella cultura e nella storia, senza rinunciare all’ironia e sfida di porre quesiti e di interrogarsi, e interrogare, per fare dell’arte visiva non uno strumento di autocelebrazione o di mero commento al reale, ma il luogo unico della ricerca di senso.

Ecco dunque che il ‘dialogo con l’ombra’ acquista la sua piena valenza e il significato di una sfida, che pur partendo dal passato pone domande e sollecita risposte, relativamente agli scenari futuri.

testi in catalogo mostra "dialogo con l'ombra" tenutasi presso la galleria nazionale di cosenza - palazzo arnone dal 26 maggio al 16 settembre 2012

Maria Grazia Bellisario

Direttore Servizio Architettura e arte contemporanee Direzione Generale per il paesaggio, le belle arti, l’architettura e l’arte contemporanee

 

La Galleria Nazionale di Cosenza torna a proporre a Palazzo Arnone l’arte contemporanea con l’artista Giulio Telarico, in una mostra dal titolo Dialogo con l’ombra.

Ancora una volta Palazzo Arnone ospita un’esperienza legata alla pluralità dei linguaggi e delle tematiche che permeano la ricerca estetica contemporanea; ancora una volta il Soprintendente Fabio De Chirico, attraverso la gestualità pittorica e le modalità percettive messe in atto nelle tele del pittore Telarico, ‘lancia una sfida’, e non solo ‘all’osservatore’, come lui stesso scrive nel testo introduttivo, ma al luogo storicamente celebrato dalla storia, quale è il Museo nella sua definizione.

Mi fa piacere affiancarmi a questa riflessione, ormai avviata da tempo, e che è stata recepita sia nel Codice dei beni culturali e del paesaggio, in cui all’articolo 101 si descrive il museo come “una struttura permanente che acquisisce, conserva, ordina ed espone beni culturali per finalità di educazione e di studio”, sia dall’International Council of Museums che nel 2004 ha elaborato una definizione di museo quale “…istituzione permanente…….al servizio della società e del suo sviluppo….”, che lascia aperto il dibattito fra gli operatori del settore sulle funzioni e sulle finalità degli istituti museali.

Qual è il ruolo che le nostre Istituzioni possono svolgere in questo ambito affinché la cultura possa generare sviluppo sociale?

Dialogo con l’ombra si pone in un dialogo continuo - il titolo esplicita una dimensione metafisica - con l’esperienza della tradizione, quindi genera un moto di pensiero. L’esperienza con l’arte produce nuove energie, stimola intrecci di relazioni fra passato e presente, ricompone i frammenti sparsi della storia, definendo un panorama compiuto e intellegibile. Allora lo spazio museale resta sì erogatore di un’esperienza irrinunciabile, ma si pone sempre più in un ruolo di interlocutore  a cui chiedere non solo risorse ma anche conoscenza e capacità progettuale. Un ambito interattivo e collaborativo con le amministrazioni centrali e territoriali, con gli artisti, i curatori e i cittadini. Questo approccio ci fa avvicinare a meccanismi relazionali vissuti su un piano paritario, necessario per capire e cogliere le opportunità nell’interesse di tutti, necessario per avviare processi di rinnovamento in vista di nuovi assetti sociali. È questa la sfida più urgente su cui siamo chiamati ad operare: le scelte di Palazzo Arnone e i suoi programmi per l’allestimento di nuove stanze dove ospitare i laboratori della creatività per lo sviluppo del nostro futuro vanno in questa direzione.

 

Francesco Prosperetti

Direttore regionale per i beni culturali e paesaggistici della Calabria

 

Cosenza omaggia uno fra i suoi artisti più interessanti e lungamente attivi sul territorio: Giulio Telarico. Riconosciuto protagonista dell’arte calabrese degli ultimi decenni, egli appartiene a quella generazione di artisti-militanti che distillarono, già dagli anni Settanta e in un territorio ancora poco avvezzo a taluni linguaggi, curiosità e fermento nei confronti di un arte “contemporanea”, grazie allo svolgersi di una ricerca personale che trova, come osserva Maria Brunetti, nel colore la sua “potenza coinvolgente  e trascinante”.

Dalla docenza presso il Liceo Artistico di Cosenza alle mostre che hanno segnato gli anni Ottanta e Novanta con Berlingeri, Correggia, Magli, Francomà, Parentela, Pingitore e il critico Sicoli, l’attività di Telarico è variegata e molteplice.

La sua pratica pittorica si affina negli anni in cui in un’altra regione del Meridione, la vicina Campania, la Transavanguardia trionfa e la Calabria partecipa del generale risveglio artistico che esplode negli anni captando l’interesse dei critici più sensibili, quali Menna e Crispolti.

Da queste premesse che delineano le coordinate artistiche e culturali della nostra regione sullo scorcio del secolo scorso, siamo oggi di fronte ad una situazione locale che ha tutte le caratteristiche per essere compresa e analizzata ad un livello nazionale, forse ancora poco studiata, forse ancora considerata “per addetti ai lavori”, ma proprio per questo meritevole di una giusta attenzione e valorizzazione nelle sedi più prestigiose, quale appunto la Galleria Nazionale della Calabria.

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